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Le due vie del destino – Recensione del film con Nicole Kidman

le-due-vie-del-destino-recensioneL’essere umano; la creatura più incredibile mai apparsa sulla terra, capace di gesti di profonda morale come di cattiveria inaudita. Questa sottile linea che modella le sembianze umane finisce per legare inesorabilmente la vita di Eric Lomax con quella di Takashi Nagase, apparentemente vittima e carnefice rispettivamente l’uno dell’altro nel film Le due vie del destino.

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Ma andiamo per ordine, Eric Lomax (interpretato da uno straordinario Colin Firth) è uno strambo tipo, appassionato di treni e tratte ferroviarie che, durante un viaggio, conosce la donna della sua vita, Patti (interpretata da una splendida Nicole Kidman). Apparentemente sembra andare tutto bene tra i due amanti quando, ad un tratto e senza preavviso, Eric comincia a cambiare, diventa strano, quasi pazzo nei suoi atteggiamenti alquanto anormali. Durante le sue crisi immagina ancora di essere prigioniero in Birmania dei giapponesi e rivive le torture terribili del suo aguzzino Takashi Nagase.  La sua psiche, in costante difficoltà, sembra palesemente emaciata dagli eventi barbari vissuti in prima persona, nettamente più pesanti rispetto ai suoi compagni di sventure.

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Il rapporto con la moglie sembra sgretolarsi giorno dopo giorno, stranezza dopo stranezza. Affezionata in maniera caritatevole al marito, Patti decide di chiedere aiuto all’amico più caro di Lomax, Finlay (Stellan Skarsgård) , forse quello che più di tutti conosce a fondo i problemi che torturano la mente di Eric. L’unico modo per alleviare i problemi del pover’uomo sarebbe quello di intraprendere una vendetta nei confronti dell’ancora vivo Nagase. Lo stimolo arriva ad Eric con il suicidio inaspettato del suo migliore amico; questo lo spinge a partire per la Birmania e a rivivere e ripercorrere i luoghi dove ha lavorato come schiavo durante la guerra, alla ricerca del suo aguzzino.

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L’incontro tra i due si svolge questa volta a parti capovolte, Eric ha l’occasione di prendere la sua personale vendetta, ma il suo cuore è più forte di quanto si possa pensare. Mosso da un sentimento misto tra pietà e compassione, decide di risparmiare il suo nemico. Questo porterà un incredibile capovolgimento di stati d’animo: Eric si sentirà sollevato mentre Nagase inizierà a soffrire terribilmente di fronte alla pietà di Eric. Alla fine il perdono definitivo eviterà immense sofferenze al giapponese, pentito amaramente dei sui errori.

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La meravigliosa scena finale è quanto di meglio possa offrire il sentimento del perdono. L’occasione che Lomax ha è più unica che rara, uccidere Nagase e vendicarsi. Ma decide di percorrere una via più astuta e scottante della semplice morte, esattamente quello che fece il suo carnefice ossia la tortura psicologica. Mosso alla fine della compassione Lomax decide di smettere con le sofferenze che capisce chiaramente essere reciproche. La mimica facciale di Firth è unica e difficilmente imitabile, la Kidman è incredibilmente brava nella parte della moglie attenta e amorosa.

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Il complesso finale è straordinariamente armonico e sinuoso nonostante le quasi 2 ore a carico. La lunga tradizione filmica sull’argomento, dalla quale possiamo creare una piccola bibliografia, come ad esempio Il ponte sul fiume Kwai di David Lean per difetto rispetto a questo film, perché quella di Lean era una favoletta consolatoria, eludendo la realtà terribile del conflitto e Furyo di Nagisa Oshima, assai simile invece nel raccontare il rapporto fra prigionieri inglesi e soldati giapponesi, nonché la crudeltà della detenzione. Quello che spicca di più nella pellicola attuale è il rapporto di contrasto ma insieme di unione tra i sentimenti di amore e odio. L’opposizione tra poli a volte può anche coincidere, questo è uno di quei casi. Il filo che lega queste due estremità è la compassione. Insomma un Amor vincit omnia dei nostri tempi, davvero un bel lavoro di adattamento.

Articolo di Emiliano Cecere

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